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Abdul Jeelani. La vita in un canestro
Abdul Jeelani. La vita in un canestro

Abdul Jeelani. La vita in un canestro

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di Giorgio Bicocchi

Un letto cigolante, il materasso a righe. Un armadietto, il viavai nel corridoio, barbe incolte, dignità mista a rassegnazione. La luce che filtra dalle finestre: dietro c’è il mondo che cammina ma chi è povero e senzatetto, in America, quasi non se ne accorge. Quando la vita ti toglie il saluto ogni giorno rischia di essere l’ultimo.

Stati Uniti, Stato del Wisconsin, città di Racine: all’interno di una casa di accoglienza per “homeless” viveva un mito della pallacanestro mondiale. Un uomo di due metri, ingobbito dai rovesci del destino, che, alla fine degli anni Settanta, condussela Lazio Basket a toccare le vette piu’ alte della sezione. Facendo innamorare migliaia di appassionati capitolini di questa disciplina così bella ed avvincente.

Jeelani è stato il campione più luccicante della Lazio. Un Totem, un predestinato, pensate ad un superlativo e aggiungeteci la sagoma di Abdul. Numeri da record: promozione in serie A-1, media di trentadue punti a partita. Una macchina per fare i canestri, il re dell’area, movimenti regali, un repertorio stratosferico. Gary Cole, all’epoca, si chiamava (prima della conversione all’Islam): duettava sul parquet col gemello McDonald ela Lazio Basket del mitico Giancarlo Asteo aveva eretto al Palazzetto di viale Tiziano il suo fortino.

Ala-pivot, recitavano gli almanacchi di un tempo, quello che il telecronista Aldo Giordani, col suo inconfondibile timbro di voce, snocciolava come se li ripassasse ogni sera, prendendoli dal comodino accanto al letto. Complici le sue prodezza a raffica, la sezione (in vita da prima degli anni Quaranta) riprese vitalità. Come un orologio antico, finalmente lucidato. Nel panorama cestistico la Lazio ha contato, eccome. Applaudendo santoni in panchina come Paratore, Asteo. Taurisano, Iellini. O campioni in erba come Gilardi e Sbarra.

Un giorno di due anni fa, il telefono di quella casa per accoglienza del Wisconsin squillò a lungo. Era un trillo diverso dal solito, più lungo, quasi avesse una origine a distanza di migliaia di chilometri. La centralinista affrettò il passo, cercò Jeelani nel refettorio. “Abdul, ti vogliono. Non so chi sia”.

Jeelani ciondolò verso il ricevitore, pensando all’ennesima scocciatura. Era finito sul lastrico, senza un dollaro. Cacciato da casa, privo di un lavoro, un fiume di debiti, un mucchio di situazioni legali da risolvere con l’ormai ex-moglie. Braccato pure da tre tumori, l’ultimo alla prostata, che l’hanno fiaccato ma non battuto. Accostò il telefono all’orecchio e, come se fosse un film, la sua vita, d’incanto, prese un’altra piega. Bella e possibile, finalmente. Dall’altro capo del ricevitore c’era Simone Santi, l’attuale Presidente della Lazio Basket che, da ragazzino, vedendolo giocare al Palazzetto, aveva scelto il suo mito e, da quello, nel corso degli anni, mai si era staccato. Non era stato facile rintracciare Abdul: gli Usa sono territorio sconfinato. Lui poi aveva perso da anni i rapporti con coloro con cui aveva giocato. Non aveva più documenti, tantomeno il passaporto: negli Stati Uniti quando vieni etichettato come un senzatetto funziona così. A Jeelani il presidente della Lazio Basket ha proposto di lavorare con i ragazzi più indigenti della Capitale, in coerenza con lo stile e gli ideali che la sezione si è prefissa. Nelle periferie piu’ estreme della città, infatti, la Lazio ha inaugurato dieci centri dove cinquecento bambini extracomunitari indossano una canotta con l’Aquila e giocano a basket, alla stregua di quanto accade nell’Africa più nera, in Mozambico, dove in due orfanotrofi, complice l’opera di solidarietà messa in piedi dalla famiglia Santi, la vita può pure regalare, correndo appresso ad un pallone a spicchi, un po’ di sorrisi.

E cosi’ a Jeelani è stato offerto di lavorare con i ragazzi. Togliendoli dalla strada, magari dalle cattive compagnie. Lui che la strada, nella sconfinata America, aveva purtroppo conosciuto. Perdendo ogni cosa, ammalandosi, finendo da rejetto – ma senza smarrire la sua dignità – in una casa di accoglienza. Santi ha tribolato un po’ per convincerlo ma poi l’omone nero ha detto si, lasciandosi alle spalle una esistenza di tribolazioni, sognando il riscatto, la riabilitazione. Non per gli altri ma per sé stesso. Tornando ad alzarsi, ogni mattina, con la gioia di farlo, strizzando l’occhio nuovamente alla vita.

Jeelani, a Roma ed ai colori laziali, aveva lasciato tre quarti di cuore. Vero, dopo aver trascinatola Lazio in A-1, aveva varcato nuovamente l’Atlantico firmando (e giocando) con due franchigie di spessore, Portland e Dallas. Era una delle stelle dell’NBA, insomma. Contratti a più zeri, una vita con la valigia, anche se lui, spesso, nelle interviste a cui, con semplicità, si concedeva, aveva sempre rifiutato l’etichetta di “riccone”. “Gioco per conoscere gente, per confrontarmi. I soldi sono un dettaglio”. Anche se poi, con crudeltà, la vita gli tolse tutti i risparmi, facendolo precipitare sul lastrico e senza un lavoro.

Qui Abdul ha ritrovato la voglia di lottare, riannodando il filo del suo destino. Lo hanno portato sotto Castel Sant’Angelo, per la foto con tutti i ragazzi a cui spiega il basket e pure le insidie della vita, quelle da dribblare. Ha riabbracciato Dino Meneghin. Gli amici di Livorno, con cui giocò – dopo l’esperienza laziale – per quattro stagioni. La Lazio Basket, nel solco degli ideali della Polisportiva, gli ha restituito un sorriso, la gioia nuovamente di sentirsi partecipe di un bel progetto. In cui non si lotta per una promozione o per un posto al sole nella griglia dei play-off ma per una finalità più romantica: praticare sport, alzare gli occhi, guardare il cielo, sentirsi liberi e vitali. Come Jeelani era sul parquet, una libellula imprendibile che aveva trasformato la vita agonistica in un fantastico canestro.

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