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Eufemi: “Ecco chi era Humberto Tozzi” (prima puntata)
Eufemi: “Ecco chi era Humberto Tozzi” (prima puntata)

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di Giorgio Bicocchi

foto tozzi 2-wMemmo, perché nacque cosi’ forte la tua amicizia con Humberto Tozzi? Memmo Eufemi riavvolge quasi sessant’anni di storia, mica qualche decennio. Roba del ’56, tanto per cominciare, quando il funambolico (ma sregolato) campione e centravanti brasiliano sbarcò a Roma, messo sotto contratto – dopo ore di negoziazioni – dal Presidente Costantino Tessarolo.

Molto incise il fatto che eravamo quasi coetanei – racconta, come sempre con un filo di emozione, quando narra di Lazio, Memmo Eufemi – io del ’35, Humberto un anno piu’ vecchio. A noi si accodò Carradori, un altro di quei ragazzi usciti dalle minori della Lazio, capace, negli anni, come accadde a me, di imporsi in prima squadra”.
Hai mai portato Humberto nel tuo regno, ad Anzio? “Eccome – risponde Eufemi – ricordo diverse occasioni in cui lo ospitai a casa. Una volta prendemmo – c’era anche Bob Lovati – un motoscafo per arrivare sino a Torre Astura, sul litorale, dove facemmo il bagno. Mi venivano spesso a trovare ad Anzio. Li portavo a mangiare il pesce. Erano ore spensierate in cui Humberto, finalmente, sorrideva”.
Già, quel viso sempre un po’ contratto. “Questione di saudade, di nostalgia canaglia. Humberto viveva malinconicamente il suo distacco dalla figlia e dalla moglie, rimaste in Brasile. Mandava a loro l’ottanta per cento del suo lucroso ingaggio, quasi un record per quei tempi. Pensate che, quando lasciò la Lazio, dopo quattro anni di militanza, per firmare con il Torino, il contratto prevedeva un compenso di trentatré milioni di lire. Roba da fantascienza”.
Finì male la sua avventura terrena, Humberto (ritratto, a lato, in una foto del Centro Studi), uno dei grandi protagonisti della prima storica vittoria della Lazio. Già, la mitica Coppa Italia del ’58 (la finale con la Fiorentina si svolse il 24 settembre, ricorreva lo scorso mese, pertanto, l’anniversario), messa in bacheca grazie alle prodezze del centravanti che, in 9 partite di quel torneo, segnò 10 reti, trascinando letteralmente i compagni al trionfo. Nato nel ’34, dopo aver dissipato tutti i risparmi (qualcuno riferì che era stata la compagna a compiere investimenti sbagliati), morì nell’80, ad appena quarantasei anni. “Mio cognato, che faceva il tassista a San Paolo, lo incontrò poco prima che morisse prematuramente davanti alla stazione. Sbarcava il lunario vendendo, su una bancarella, le cravatte. Dimostrava molti più anni di quanti ne avesse, il fisico minato dai dolori e dalla malattia. Signor Tozzi, io sono italiano e sono il cognato di Eufemi, gli disse. Ma chi, Memmo? Rispose lui, commuovendosi”.
Come lo ricordi Tozzi, Memmo? “Come un ragazzo con un carattere meraviglioso, aperto con tutti. Era malinconico, certo, ma estremamente educato. Mai l’ho sentito alzare la voce nei confronti di qualcuno. Abitava nei pressi dello Stadio Flaminio, in una di quelle vie che si snodano fin quasi a Piazza del Popolo. Anche Muccinelli e Pinardi, al pari di altri giocatori della Lazio, abitavano lì. La stessa zona dove, dopo aver smesso di giocare, acquistò un appartamento anche Flacco Flamini. Io, invece, non avevo ancora preso casa a Roma: facevo il pendolare con Anzio visto che nel ’56, dopo essere tornato alla Lazio dal prestito a Livorno, non potevo ancora permettermi un investimento immobiliare”.
Gli fosti amico anche perché dividevi con lui la stanza, in ritiro… “Certo – risponde Eufemi – in realtà molti miei compagni volevano stare con me, in stanza. Io ero il tipo perfetto: dormivo pure se il mio compagno ascoltava la musica. Dormivo col freddo o con la stanza baciata dal sole. Ronfavo con le serrande alzate o con quelle ermetiche. Mai un fiato, una rimostranza: ecco perché, quando si componevano le stanze, tutti chiedevano di dormire con me. Humberto era solito sganciare quattro-cinquemila lire, una grande somma all’epoca, ai camerieri affinchè gli portassero in stanza stecche di sigarette o decine di bitter da bere. Combatteva la depressione, la malinconia per la lontananza dal Brasile e dalla famiglia con il fumo e con il bere: fu questo il suo grande difetto. Non avesse avuto questa insana passione avrebbe certamente reso di più. Non solo alla Lazio. Una volta andò in campo completamente ciucco. Non strusciò palla, vagava per il campo come uno spettro. Non ho mai capito, ancora oggi, se Carver o Bernardini, due degli allenatori di quel periodo, fossero a conoscenza delle sue abitudini” (fine prima puntata)

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