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Fausto e Serse Coppi. Un destino nella Lazio
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di Giorgio Bicocchi

Sono lunghe le notti africane, notti zeppe di stelle che popolano il grande schermo dell’oscurità. I soldati italiani, sovente, alzano gli occhi, quasi ad interrogare gli astri. Coppi non si sottrae, le sue notti sono dominate, pero’, dalla rabbia. Gli hanno appena comunicato, ad esempio, che la sua bici, quella che con la quale aveva demolito il record dell’ora detenuto da Archimbaud, giace abbandonata in un sottoscala del Velodromo Vigorelli.

Ci sarebbero stati i margini per liberarlo da quell’incubo: spedito in Africa, fante della Divisione Ravenna, nonostante i successi sui quali, in fondo, pure il regime aveva costruito parte della propria retorica. “Non mi avete dato un ciclista, mi avete dato un uomo da trasformare in soldato”: cosi’ aveva risposto alla Legnano, la società con la quale correva prima di partire per il fronte, il colonnello che lo aveva preso in cura.

Sarebbe stata una agonia quell’avventura dell’Esercito Italiano nella sacche del deserto del Magreb: cosi’ aveva profetizzato Coppi sul piroscafo che, dalla Sicilia, lo aveva sbarcato in Tunisia. E, puntualmente, il 13 maggio del ’43 quell’agonia fini’: duecentocinquantamila uomini, tra italiani e tedeschi, depongono le armi, arrendendosi. Il Generale Montgomery informa il Comando Alleato. Londra si congratula, Churchill invia un telegramma di felicitazioni. E’ finita la guerra, pensa Fausto, poco importa che inizi adesso la prigionia. Tornero’ a Castellania, pensa, sposero’ Bruna, riprendendo a correre e a vincere.

La nave è carica di ragazzi che la guerra ha reso amici. Il piroscafo ansima, le coste della Sicilia che si avvicinano. Fausto ha guadagnato il ponte. Cosa gli avrebbe riservato il ritorno in Italia, seppure da prigioniero? Sbarca a Napoli, fine del ’44, mezzo Stivale è liberato, lassu’, al Nord, ancora ci si batte, si spara. Gli inglesi lo confinano a Caserta, presso il Comando Alleato. Fausto ha la fortuna di conoscere un tenente con la faccia zeppa di lentiggini, Si chiama Towell. Gli altri prigionieri non fanno altro che narrargli le imprese di Coppi. “Tenente, qui c’è un fenomeno. Ha vinto il Giro d’Italia, ha battuto il record del mondo”. La voce che Fausto è detenuto li’ si è sparsa. “Coppi è a Caserta, capito?”. Un giorno di gennaio del ’45 un camioncino si accosta alla rete del campo. Fausto sbircia da lontano. C’è Bartali sulla tolda di quel camion sgangherato,con le gomme quasi mangiate interamente. Non è solo, ci sono pure Leoni, Ricci, Volpi, gente che correva con lui. E’ stato Busani, ex-giocatore del Napoli e della Lazio, anch’esso prigioniero, a far sapere ad un giovane giornalista partenopeo, Gino Palumbo – che sarebbe poi diventato uno dei direttori piu’ illuminati de “La Gazzettadello Sport” – che li’, a Caserta, era prigioniero Fausto Coppi. Andavano a correre in paesi vicini, Bartali e la sua banda improvvisata. “Un giorno vinco io, un giorno vince Leoni, siamo come una compagnia di attori che, in attesa della grande scrittura, si accontentano dei tendoni della provincia. Ehi, Fausto, tra un po’ si ricomincia, vedrai”.

E’ qui che la sagoma della Lazio, lentamente, fece capolino nella vita di Coppi. A gennaio del ’45 Fausto incontro’ un gruppo di persone che provenivano da Roma. C’era Palumbo, c’era Pietro Chiappini, già compagno nella Legnano. E c’era anche il costruttore Edmondo Nulli, che possedeva un affermato negozio di bici in viaLa Spezia, a San Giovanni. Fausto rivela loro che nei due anni di prigionia mai è salito su una bicicletta. Soltanto da pochi giorni, in verità, grazie alle concessioni del Tenente Towell, inforca una vecchia “Legnano”, gradito omaggio di un tifoso di Somma Vesuviana.

Il patto, ormai, è sancito. Nulli offre una delle sue biciclette mentre Chiappino promette di trovare una società che possa accompagnarlo nella sua ripresa agonistica. Non c’è molta scelta, in verità, perchéla Lazio, ormai, grazie alle eredità del vecchio Presidente Ballerini, già dall’inizio degli anni Quaranta è mondo che pulsa e che trascina, avendo vestito dei nostri colori sociali oltre quattromila atleti, puntualmente protagonisti in molteplici sezioni. Fausto sventola cosi’ la sua tessera di affiliazione alla Lazio: un grandissimo motivo di vanto – anche a distanza di quasi settant’anni – per la Polisportiva. Un formidabile regalo per le generazioni a venire.

Non è un salto nel buio, per Fausto, perché la Lazio di allora è sezione dinamica e vincente: è guidata dal Presidente Stinchelli, conta su corridori eccellenti come Bruno e Romano Pontisso e Marcello Spadolini, vantando pure una funzionale organizzazione, sia pure in rapporto alle risorse di allora.

Anche Chiappini si tessera conla Lazioe cosi’ il tandem si ricostituisce. Debuttano su una bicicletta Nulli arancione, con doppia fascia argentea, in occasione di una “americana” al Motovelodromo Appio il 1° aprile., classificandosi al quarto posto. Il Motovelodromo Appio era un impianto sportivo costruito nel 1910, caratterizzato dal fatto di avere una pista adatta ad ospitare gare di ciclismo e motociclismo. L’impianto sportivo si trovava nel quartiere Appio Latino, presso l’attuale Largo dei Colli Albani, dove infatti esiste ancora una via del Velodromo.

E’ il 27 maggio di quell’anno – con l’Italia liberata ufficialmente da un mese, protesa verso la libertà e il successivo boom economico – che Fausto, difendendo i colori della Lazio, vinse la sua prima corsa,la CoppaSalvioni, battendo Bartali in volata. In quei mesi Fausto volle con sé – anch’egli tesserato perla Lazio– pure il fratello Serse. Debutto’ il 24 giugno del ’45 nel Giro del Lazio, ottenendo un terzo posto proprio alle spalle del fratello. Partecipo’ ad una ventina di corse, esibendo con orgoglio lo stemma della Lazio, cucito proprio al centro della maglia, quasi sullo sterno. In quei mesi di militanza laziale fu presenza fondamentale per Fausto che, per lui’, ebbe sempre un affetto profondissimo. La sua morte – come quella di Fausto, battuto dalla malaria, nonostante sarebbe bastata una semplice pillola di chinino, reduce da una battuta di caccia in Alto Volta, per guarirlo – fu drammatica e jellata. Al termine di un Giro del Piemonte del ’51, infatti, infilo’ la ruota in un rotaia, finendo a terra e sbattendo la testa. Sarebbero bastati impacchi di acqua fredda ed un pronto ricovero in ospedale. Invece i medici indugiarono, facendolo rientrare in albergo senza cure. Qui Serse, dopo una doccia calda, cadde in coma, non risvegliandosi piu’.

Quando, alla fine del ’45, l’ingegner Zambrini annuncio’ chela Bianchisarebbe tornata alla corse e che Fausto sarebbe stato l’impareggiabile capitano, tutti, a Roma e dintorni, capirono che la sua avventura alla Lazio, al pari di quella di Serse, era terminata.

In alcune interviste degli anni Cinquanta, quando la sua fama mondiale si dilato’, Fausto mai ha mancato di ricordare con affetto la Lazio che fu la squadra, in fondo, che gli permise di tornare a correre, dimenticando gli obbrobri della guerra. Un destino bianco e celeste, il suo, se ci pensate. Prima con i colori della Lazio, poi con la muta storica ed immortale della Bianchi. Nessuno, in fondo, puo’ pensare di chiudere il cerchio della propria vita.

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