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Una polisportiva multirazziale
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di Giorgio Bicocchi

Tempo di compleanno e di rievocazioni, tempo di emozioni e di ricordi. Il maltese Mizzi e il portoghese Dos Santos: per illustrare come la Polisportiva, nel corso del suo affascinante cammino lungo 113 anni di vita, abbia abbracciato ragazzi e ragazze provenienti da ogni spicchio del mondo occorre ripartire proprio da loro. Foto ingiallite, rigorosamente in bianco e nero. L’alveo del Tevere in lontananza. La spianata di Piazza d’Armi, dove i primi calciatori laziali cominciavano ad apprendere l’arte del football. Villa Borghese, il Parco dei Daini, uno dei primi campi ufficiali in cui la Lazio si esibi’, facendo innamorare dei propri colori e del calcio una moltitudine di romani.
Mizzi e Dos Santos, ovvero due tra i primi pionieri della Lazio Calcio. Quelli che, per calciare in porta, usavano scarpe pesantissimi, correndo con i pantaloni di flanella. Uno maltese, l’altro portoghese: l’universo laziale – ricco di profili, storie, aneddoti, curiosità – si è gradualmente arricchito nel corso di oltre un secolo. Integrazione razziale: la Polisportiva, in coerenza con i suoi ideali, quei colori scelti in onore dell’Ellade e della inaugurale Olimpiade moderna, svoltasi ad Atene quattro anni prima della fondazione della Lazio, ha fatto proprio il concetto. Vestendo dei nostri colori proprio tutti, senza distinzioni di classe, ceto, figuriamoci colore della pelle o credo religioso. Basta vedere, la domenica mattina, come diversi tesserati della Lazio Badminton (in gran parte asiatici) sorridano e si scambino pacche sulle spalle, lontani da casa ma con una Polisportiva che, accogliendoli senza riserve, ha contributo ad integrarli nel tessuto sociale della città. Perché questo, in fondo, si dovrebbe chiedere allo sport, a corredo della prestazioni agonistica, di una classifica da alimentare, di un allenamento o di una partita da sostenere. Sentirsi vivi all’interno di un gruppo, inserirsi, accettando se stessi con gli altri. E la Lazio il concetto di integrazione razziale ha sempre cavalcato: chi è arrivato a Roma, poi, abbracciando gli ideali della lazialità, qui, in molti casi, è rimasto, senza tornare in patria una volta terminata l’attività agonistica. Prendete il caso di Enrique Flamini, il talento argentino che, negli anni Quaranta, duettava in campo con Piola. Approdo’ in Italia cercando fortuna, sbarcando da un piroscafo ansimante direttamente dalla natia Argentina. Qui si consacro’, divenne campione. Restando pure come dirigente del settore giovanile una volta chiusa la carriera.
Ma gli esempi sono mille e piu’ di uno. Per vincere lo scudetto la Lazio femminile integro’ giocatrici del nord Europa con funamboli del Sud America. Nello spogliatoio, all’inizio, i concetti espressi sembravano uno scioglilingua ma poi, gradualmente, la musica divenne sinfonia e quel gruppo sbaraglio’ la concorrenza. Jeelani, negli anni Ottanta, dopo aver abbracciato la fede musulmana, era un giocatore-crack dell’NBA. La Lazio lo aveva scovato regalandogli notorietà e lui, quasi a ricompensarla, la trascino’, con medie-punti stratosferiche, alla promozione in serie A1. Bene, il Progetto-Colors (le cui nobili finalità sono ampiamente rappresentate in questa rassegna) lo vede tutt’ora splendido testimonial di una aspirazione: quella di strappare il maggior numero possibile di ragazzi disagiati dalla strada e dalle cattive compagnie. Dandogli un sogno a cui aggrapparsi per sentirsi protagonisti nella vita. Italiani afflitti dalla povertà, figli di etnia rom, immigrati dell’Est, ragazzi cinesi: una canottiera addosso, un’aquila sul petto e forse la vita, inseguendo un canestro o una schiacciata puo’ sembrarti meno scivolosa.
Integrazione razziale, la Polisportiva mai ha tradito. Anche quando, negli anni Quaranta, alcuni soci del Circolo Canottieri Lazio aprirono rifugi nascosti, sulle rive del Tevere, per strappare decine di ebrei alla deportazione nei campi di sterminio. La Lazialità è uno stile di vita, amava ripetere Renzo Nostini, uno dei padri della Polisportiva, che ne resse i destini per oltre mezzo secolo, strizzando l’occhio a nuove sezioni e a sempre un maggior numero di atleti da tesserare. Ma pure un forziere di buoni sentimenti e di grande cultura, che nessuno esclude e tutti accoglie. In nome dello sport pulito, universale, da praticare in pace e tolleranza.

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