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Il canto degli anni ’60: “Arrigo Dolso, sei mejo de Corso”
Il canto degli anni ’60: “Arrigo Dolso, sei mejo de Corso”

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di Giorgio Bicocchi

1969 Arrigo Dolso e Umberto Lenzini-wEra il canto di quello spicchio di Curva. Sprazzi estemporanei di felicità davanti ad una Lazio che arrancava. Che aveva conosciuto la serie cadetta e faticava a ridarsi sostanza. “Arrigo Dolso, sei mejo de Corso”, cantava la gente, mentre, in campo, all’Olimpico o fuori, il funambolo – con i calzettoni rigorosamente abbassati – incantava, dribblando, inventando assist, concludendo in porta. Con quel sinistro che pareva regalo divino.

Illuminava, Arrigo Dolso – friulano di San Daniele, classe 1946, che proprio oggi compie sessantotto anni – solo quando decideva di incidere. Incostante, volubile, uno dei tanti talenti solo sbocciati del calcio italiano ma che mai – in modo compiuto – riuscì a ritagliarsi la giusta vetrina. Arrivò alla Lazio nel ’66, vi resto’ fino al ’71, in mezzo una parentesi a Monza. La foto (una esclusiva del Centro Studi, proveniente dall’archivio di Angelo Tonello, storico dirigente della Lazio di Lenzini e non solo) lo ritrae proprio accanto al “Sor Umberto”.
Amava la bella vita, Dolso: un rifugio a cui non sapeva resistere. Usciva praticamente tutte le sere – ha raccontato anni fa, da Portoferraio, sull’isola d’Elba, dove da anni si è trasferito – girovagando per i locali di Via Veneto, Piazza del Popolo, Piazza Barberini. Camicia rigorosamente a fiori, da aprile in avanti, a coste larghe, ai primi indizi d’autunno. “Con quale banda hai suonato ieri sera?”, lo incalzava, il mattino successivo, Lorenzo, uno che faceva battute e che conosceva le debolezze di tutti i suoi giocatori. Uno così non poteva sopportare i ritiri estivi e quelli prima delle partite: frequenti le fughe, i ritardi nel tornare in albergo. Musica, belle donne, night: il dono di saper giocare bene a pallone gettato colpevolmente alle ortiche.
Non ha mai saputo vincere il suo difetto, Dolso. Che, infatti – dal momento che il calcio (giustamente) non aspetta per sempre chi non sa fare un buon uso del proprio talento – ha poi girovagato in provincia, senza mai ergersi a definitivo protagonista. Ha diviso allenamenti, partite e viaggi con Lazio diverse: è stato compagno – in ordine sparso – di Cei, Di Vincenzo, Marchesi, Onor, Pagni, Zanetti, Carosi, Mari, Bagatti, D’Amato, Morrone, Governato, Fortunato, Facco, Massa, Ghio, Oddi, Wilson e Long John.
Di lui, nella mente dei Laziali degli anni Sessanta, restano quelle giocate imperiose a testa alta – quando non viveva domeniche apatiche – e l’eco di quel canto in cui, per pochi minuti, sembrava davvero più forte di Mariolino Corso.

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